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Pubblicità e Concorrenza

Greenwashing e certificazioni private: cosa cambia per le imprese dopo la pronuncia del Tribunale di Milano del 25 luglio 2025

Studio Legale Pallavicini
18 novembre 2025
6 min di lettura

Con decreto ex art. 840-sexiesdecies c.p.c. del 25 luglio 2025, il Tribunale di Milano ha accolto parzialmente un’azione inibitoria collettiva promossa da un’associazione di consumatori nei confronti di una società operante nell’e-commerce di abbigliamento, censurando alcuni green claims presenti sul sito e sui social aziendali come pratiche commerciali ingannevoli ai sensi degli artt. 20 e 21 Codice del Consumo.

La pronuncia, che richiama in modo sistematico la giurisprudenza della Corte di Giustizia UE sulla nozione di “consumatore medio”, fornisce indicazioni concrete su come strutturare le dichiarazioni ambientali e sul ruolo – limitato – dei marchi privati di sostenibilità.

1) Il caso: azione inibitoria e green claims contestati

L’associazione ricorrente contestava una serie di affermazioni utilizzate dalla resistente per qualificare la propria attività come “sostenibile”, tra cui in particolare:

“Questa impresa rispetta alti standard di impatto ambientale e sociale positivo”;

“Ci impegniamo a seguire i più alti standard di sostenibilità, trasparenza e equità. Siamo qui per fare la nostra parte e costruire un futuro migliore per tutti”;

“La nostra filosofia si estende all’intera filiera, attraverso la scelta di fornitori locali dagli standard produttivi a impatto zero…”;

“maglieria IMPATTO 0”.

Secondo il Tribunale, tali claim contengono “proposizioni indimostrate e non verificabili” e non si limitano a esprimere un impegno di massima per la sostenibilità, ma suggeriscono che l’intera attività d’impresa sia improntata a standard particolarmente elevati o addirittura “a impatto zero”, senza che ciò sia stato provato.

Di qui l’accertamento della natura ingannevole di questi messaggi, l’inibitoria al loro utilizzo e l’ordine di rimozione da sito, social e altri canali, con fissazione di una penale di 1.000 euro per ogni violazione e per ogni giorno di ritardo nell’adempimento.

2) Il parametro del “consumatore medio” come chiave di lettura

Il Tribunale di Milano ancora la propria valutazione al parametro del “consumatore medio” delineato dalla Direttiva 2005/29/CE sulle pratiche commerciali sleali e interpretato dalla Corte di Giustizia (tra le altre, C-646/22 del 14 novembre 2024 e C-139/22 del 21 settembre 2023).

In sintesi:

-          il consumatore medio è “normalmente informato, ragionevolmente attento e avveduto”;

-          si tratta di un criterio oggettivo, che prescinde dalle conoscenze specifiche del singolo individuo;

-          occorre verificare se la pratica sia idonea a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico di tale consumatore virtuale;

-          l’analisi non può essere puramente teorica, ma deve tener conto di elementi realistici, incluse le possibili distorsioni cognitive, quando suscettibili di incidere sulle decisioni di acquisto.

Nel caso di specie, il Tribunale distingue nettamente tra:

-          claim assoluti o superlativi (“alti standard di impatto ambientale”, “più alti standard di sostenibilità”, “impatto zero”), ritenuti idonei a indurre il consumatore medio a credere che l’impresa si collochi strutturalmente “sopra” il mercato in termini di sostenibilità;

 -          claim più generici o aspirazionali (“la nostra dedizione perché diventi un pianeta migliore”, “sistema etico”, “style … sustainabily made”), qualificati come vanterie innocue, non sufficienti a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico del pubblico dei consumatori.

3) Onere della prova e veridicità dei green claims

Il Tribunale richiama espressamente gli Orientamenti della Commissione UE sull’interpretazione della Direttiva 2005/29/CE, secondo cui le asserzioni ambientali devono essere:

-          veritiere;

-          chiare, specifiche, inequivocabili e accurate;

-          supportate da prove disponibili e prontamente esibibili alle autorità di controllo (art. 12 Dir. 2005/29/CE).

Nel procedimento, la resistente non ha fornito elementi idonei a dimostrare:

-          l’effettivo rispetto di “alti standard di impatto ambientale”;

-          l’adesione a “più alti standard di sostenibilità” rispetto al mercato;

-          la reale sussistenza di un ciclo produttivo o di una filiera “a impatto zero”.

Da qui la qualificazione dei claim come “greenwashing”: non è sufficiente l’adesione a valori generali o generiche iniziative di miglioramento in termini di sostenibilità ambientale; occorrono dati misurabili, verificabili e coerenti con l’ampiezza delle rivendicazioni pubblicitarie diffuse tra il pubblico.

4) Marchi di sostenibilità e certificazioni private: quale ruolo?

Un profilo di particolare interesse riguarda l’uso dei marchi riconducibili a un noto sistema privato di certificazione (rete “B Corp”), rispetto ai quali l’associazione ricorrente lamentava l’uso fuorviante del termine “certificazione”, ritenuto idoneo a suggerire un vaglio terzo e imparziale in senso pubblicistico.

Il Tribunale:

-          ricostruisce il contenuto delle registrazioni dei marchi, evidenziando che essi sono registrati per servizi di consulenza, audit e valutazione delle imprese ai fini di “certificazione” e controllo di qualità, ma in un’ottica privatistica;

-          chiarisce come il marchio sia concesso in licenza da un ente privato non accreditato ai sensi del Reg. (UE) 765/2008 e non assimilabile agli organismi di normazione (ISO, ecc.), con criteri autonomi non ratificati da istituzioni pubbliche;

-          sottolinea che tale sistema segnala, in sostanza, l’appartenenza a un “club privato” di imprese che condividono determinati valori e standard interni, senza garantire conformità a norme o procedure pubblicistiche.

Da ciò discendono due conseguenze:

-          Il marchio di sostenibilità in sé non è vietato;

-          I marchi in questione non sono ritenuti intrinsecamente ingannevoli, alla luce del loro oggetto di registrazione e delle avvertenze pubblicate sul sito aziendale. La domanda di inibire in assoluto l’uso del marchio viene dunque respinta.

Tuttavia, una certificazione privata non basta a legittimare claim assoluti.

Il Tribunale chiarisce che tali marchi hanno natura meramente privatistica e “godono esclusivamente dell’autorevolezza che deriva dalla reputazione del movimento ideale” che li promuove, senza assicurare conformità a norme o standard pubblici. Non possono quindi essere utilizzati come base per proclamare “impatto zero” o “più alti standard di sostenibilità” se mancano elementi oggettivi e verificabili a supporto.

Il giudice richiama, inoltre, la Direttiva (UE) 2024/825 che, a partire dal 27 settembre 2026, vieterà l’uso di “marchi di sostenibilità” non basati su sistemi di certificazione o non stabiliti da autorità pubbliche. Pur non applicabile ratione temporis al caso concreto, la direttiva viene indicata come cornice evolutiva in cui tali segni saranno scrutinati con crescente rigore.

5) Implicazioni operative per le imprese

L’ordinanza del Tribunale di Milano fornisce coordinate molto concrete per chi utilizza claim ambientali o ESG nella propria comunicazione commerciale. In sintesi, emergono alcune linee operative:

-          evitare superlativi e claim assoluti non dimostrabili

-          epressioni come “impatto zero”, “alti standard di impatto ambientale”, “più alti standard di sostenibilità” espongono a un rischio elevato se non supportate da metriche solide (es. bilanci di sostenibilità, target scientificamente validati) e facilmente documentabili.

Le affermazioni pubblicitarie sulla sostenibilità dovrebbero:

-          indicare l’ambito (prodotto specifico vs intera azienda);

-          richiamare parametri quantitativi (es. % di materiale riciclato, riduzioni di emissioni certificate, standard tecnici adottati);

-          poter essere dimostrate documentalmente in caso di richiesta di un’autorità o di un giudice.

Occorre inoltre gestire con attenzione marchi e certificazioni private. Infatti, i marchi di sostenibilità di natura privatistica:

-          non equivalgono a certificazioni pubbliche o accreditate;

-          non legittimano, da soli, claim assoluti o comparativi aggressivi;

-          richiedono disclaimer chiari sulla loro natura, sul soggetto che li rilascia e sul significato effettivo del “bollino”.

Infine, il Tribunale si è mostrato meno severo verso formulazioni che enunciano obiettivi, impegni o valori (“dedizione per un pianeta migliore”, “sistema etico”), purché inseriti in un contesto trasparente e non presentati come prova di una superiorità ambientale strutturale rispetto ai concorrenti.

In conclusione, alla luce delle giurisprudenza richiamata sopra e in vista della futura applicazione della Direttiva (UE) 2024/825, è consigliabile avviare da subito:

-        un audit dei claim ambientali e dei marchi di sostenibilità utilizzati su tutti i canali;

-        l’allineamento delle politiche di marketing alle linee guida UE sulle pratiche commerciali sleali;

-        la definizione di procedure interne per la raccolta e l’aggiornamento delle evidenze documentali a supporto dei green claims.

 

Tag:

#greenclaims#greenwashing#pubblicità#pratiche commerciali

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